Di Gianlorenzo Masaraki
“Le piante usate dalla tradizione indonesiana
contro i disturbi nervosi” è una documentazione sperimentale che è stata
offerta alla sezione di antropologia medica dell’Istituto Riter (coordinata
dalla dottoressa Maria Elena Pallaroni)
nel corso di un viaggio di studio. Viene pubblicata per la prima volta
in questa occasione.
Le piante sono state studiate nel dipartimento di Farmacia
di uno dei prestigiosi istituti di ricerca dell’Isola di Giava: l’Istituto di
tecnologia di Bandung.
Si tratta, riteniamo, di un raro esempio che ci perviene
dall’estero di uno “studio ufficiale” sui rimedi proposti dalla medicina
tradizionale.[1]
Con l’occasione può quindi essere utile qualche
considerazione introduttiva che permetterà al lettore di inquadrare più
agevolmente questo contributo nel contesto in cui è nato.
In Indonesia negli ultimi anni il governo ha dato un grande
impulso allo studio dei rimedi proposti dai guaritori tradizionali. In accordo con
i programmi della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedono
un’ampia rivalutazione e valorizzazione di pratiche di cura ingiustamente
private in passato di una loro dignità scientifica.
A livello operativo in genere viene applicato un modello di
intervento come ci è stato spiegato dal prof. Nico Kalangi, antropologo medico
dell’Università di Jakarta che prevede la presenza contemporanea sia a livello
di studi che di assistenza clinica, di un guaritore tradizionale (in
indonesiano: “Dukun” e Calah”) e di un medico di formazione occidentale.
Campi preferenziali di intervento sono quelli legati al
parto e alla pediatria.
I “Dukun” in particolare sarebbero eredi delle tradizioni di
cura e assistenza al parto mentre i “Calh” sono da sempre depositari delle
tecniche di circoncisione e delle norme di pericultura.
Ma venendo più propriamente all’argomento di cui tratta la
professoressa Joke Wattimena, che ha diretto questa ricerca, è importante
sottolineare come nella tradizione indonesiana molto spesso le sostanze
naturali vengono combinate tra di loro in un composto denominato “Jamu”.
I dosaggi e le proporzioni dei vari ingredienti sono molto
spesso dei segreti custoditi gelosamente da generazioni e tramandati
all’interno di ristretti ambiti iniziatici come accadeva nelle corti e nei
sultanati indonesiani.
Quindi l’esame degli effetti terpautici di una sola sostanza
vegetale non offre in realtà che una parziale visione dei benefici che si
possono ottenere con questi trattamenti.
Ma credo valga anche la pena di ricordare come la farmacopea
occidentale che conosce da tempo molte sostanze della tradizione orienatle, ne
abbia fatto un uso improprio. Ignorando infatti che ci si trova di fornte ad un
“piccolo microcosmo” di eventi integrati, nella esasperata ricerca di un
“principio attivo” da isolare spesso si è perso il significato terapeutico
originario attribuito a queste sostanze da un’esperienza millenaria.
Basti l’esempio della Rauwolfia, presente non solo nella
tradizione indonesiana ma anche in quella indiana e Tibetana.
In occidente è stato in particolare utilizzato un alcaloide
della “Rauwolfia Serpentina”, meglio nota come “Reserpina”, una pianta usata
anticamente in oriente come antidoto al velendo dei serpenti.
Questa sostanza possiede, tra gli altri, due effetti clinici
importanti: un’efficacia riconsosciuta negli stati di eccitazione psichica e
nell’ipertensione arteriosa.
“Una doppia faccia” che in qualche modo ha deciso il
destino del suo disuso in occidente.
Studiata in Svizzera intorno agli anni ’30, venne inserita
nel prontuario terapeutico di molti paesi occidentali nel decennio successivo
come prodotto di sintesi.
Utilizzata inizialmente dagli psichiatri per i suoi effetti
sedativi passò poi “di mano” e venne quasi esclusivamente prescritta in ambito
internistico come ipotensivo.
Gli psichiatri finirono infatti per abbandonarne lentamente
l’uso sia per l’avvento di nuove molecole efficaci, sia per i gravi effetti
collaterali di tipo ipotensivo.
Ma altrettanto fecero gli internisti in tempi più recenti
dal momento che si trovarono ad affrontare un altro effetto “collaterale”
indesiderabile.
Nei pazienti trattati si manifestavano infatti gravi crisi
depressive con caratteristiche così impegnative
da configurare una “sindrome suicidaria da reserpina”.
E’ curioso notare come una sostanza (trascurando, per semplificare, il fatto che si tratti in
questo caso di una molecola di sintesi) utilizzata da centinaia di anni, con
grandi benefici, da culture con una concezione psicosomatica dell’uomo
ammalato, abbia fallito nell’impatto con una cultura medica rigidamente
separata in ambiti specialistici per la mente e per il corpo.
In realtà quelli che in occidente sono stati preposti come
effetti “collaterali” sono parte di quel corredo di efetti che si rivelano
nella loro più completa validità solo ad una lettura “psicosomatica”” della
Rauwolfia Serpentina.
Oggi sono ormai molte le sostanze naturali che vengono
utilizate come presidi di cura grazie anche ad un contatto sempre più esteso
con le culture orientali. Spesso però non arrivano i benefici promessi e molti
rimedi vengono abbandonati lasciando spazio a
presidi di più immediata efficacia ma anche, spesso, di maggiore
tossicità.
In realtà dalle tradizioni di cura dovremmo mediare non solo
“principi attivi” ma anche una “lettura” differente delle sostanze terapeutiche
derivate dalle piante. Le erbe, come ricorda un’antica formula indiana, hanno
infatti mente e un corpo.
Erbe, Secondo Natura, dicembre 1986
[1] “In
Oriente è tradizione di cura ciò che risulta identificabile come dato di
esperienza trasmesso da generazioni (di guaritori) per comunicazione
prevalentemente orale, “da bocca a orecchio” come affermano gli stessi
esponenti di questi orientamenti di cura.”
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