giovedì 11 giugno 2015

LA SCIENZA A SCUOLA DELLA TRADIZIONE



Di Gianlorenzo Masaraki
 “Le  piante usate dalla tradizione indonesiana contro i disturbi nervosi” è una documentazione sperimentale che è stata offerta alla sezione di antropologia medica dell’Istituto Riter (coordinata dalla dottoressa Maria Elena Pallaroni)  nel corso di un viaggio di studio. Viene pubblicata per la prima volta in questa occasione.
Le piante sono state studiate nel dipartimento di Farmacia di uno dei prestigiosi istituti di ricerca dell’Isola di Giava: l’Istituto di tecnologia di Bandung.
Si tratta, riteniamo, di un raro esempio che ci perviene dall’estero di uno “studio ufficiale” sui rimedi proposti dalla medicina tradizionale.[1]
Con l’occasione può quindi essere utile qualche considerazione introduttiva che permetterà al lettore di inquadrare più agevolmente questo contributo nel contesto in cui è nato.
In Indonesia negli ultimi anni il governo ha dato un grande impulso allo studio dei rimedi proposti dai guaritori tradizionali. In accordo con i programmi della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedono un’ampia rivalutazione e valorizzazione di pratiche di cura ingiustamente private in passato di una loro dignità scientifica.
A livello operativo in genere viene applicato un modello di intervento come ci è stato spiegato dal prof. Nico Kalangi, antropologo medico dell’Università di Jakarta che prevede la presenza contemporanea sia a livello di studi che di assistenza clinica, di un guaritore tradizionale (in indonesiano: “Dukun” e Calah”) e di un medico di formazione occidentale.
Campi preferenziali di intervento sono quelli legati al parto e alla pediatria.
I “Dukun” in particolare sarebbero eredi delle tradizioni di cura e assistenza al parto mentre i “Calh” sono da sempre depositari delle tecniche di circoncisione e delle norme di pericultura.
Ma venendo più propriamente all’argomento di cui tratta la professoressa Joke Wattimena, che ha diretto questa ricerca, è importante sottolineare come nella tradizione indonesiana molto spesso le sostanze naturali vengono combinate tra di loro in un composto denominato “Jamu”.
I dosaggi e le proporzioni dei vari ingredienti sono molto spesso dei segreti custoditi gelosamente da generazioni e tramandati all’interno di ristretti ambiti iniziatici come accadeva nelle corti e nei sultanati indonesiani.
Quindi l’esame degli effetti terpautici di una sola sostanza vegetale non offre in realtà che una parziale visione dei benefici che si possono ottenere con questi trattamenti.
Ma credo valga anche la pena di ricordare come la farmacopea occidentale che conosce da tempo molte sostanze della tradizione orienatle, ne abbia fatto un uso improprio. Ignorando infatti che ci si trova di fornte ad un “piccolo microcosmo” di eventi integrati, nella esasperata ricerca di un “principio attivo” da isolare spesso si è perso il significato terapeutico originario attribuito a queste sostanze da un’esperienza millenaria.
Basti l’esempio della Rauwolfia, presente non solo nella tradizione indonesiana ma anche in quella indiana e Tibetana.
In occidente è stato in particolare utilizzato un alcaloide della “Rauwolfia Serpentina”, meglio nota come “Reserpina”, una pianta usata anticamente in oriente come antidoto al velendo dei serpenti.
Questa sostanza possiede, tra gli altri, due effetti clinici importanti: un’efficacia riconsosciuta negli stati di eccitazione psichica e nell’ipertensione arteriosa.
“Una doppia faccia” che in qualche modo ha deciso il destino  del suo disuso in occidente.
Studiata in Svizzera intorno agli anni ’30, venne inserita nel prontuario terapeutico di molti paesi occidentali nel decennio successivo come prodotto di sintesi.
Utilizzata inizialmente dagli psichiatri per i suoi effetti sedativi passò poi “di mano” e venne quasi esclusivamente prescritta in ambito internistico come ipotensivo.
Gli psichiatri finirono infatti per abbandonarne lentamente l’uso sia per l’avvento di nuove molecole efficaci, sia per i gravi effetti collaterali di tipo ipotensivo.
Ma altrettanto fecero gli internisti in tempi più recenti dal momento che si trovarono ad affrontare un altro effetto “collaterale” indesiderabile.
Nei pazienti trattati si manifestavano infatti gravi crisi depressive con caratteristiche così impegnative  da configurare una “sindrome suicidaria da reserpina”.
E’ curioso notare come una sostanza (trascurando, per  semplificare, il fatto che si tratti in questo caso di una molecola di sintesi) utilizzata da centinaia di anni, con grandi benefici, da culture con una concezione psicosomatica dell’uomo ammalato, abbia fallito nell’impatto con una cultura medica rigidamente separata in ambiti specialistici per la mente e per il corpo.
In realtà quelli che in occidente sono stati preposti come effetti “collaterali” sono parte di quel corredo di efetti che si rivelano nella loro più completa validità solo ad una lettura “psicosomatica”” della Rauwolfia Serpentina.
Oggi sono ormai molte le sostanze naturali che vengono utilizate come presidi di cura grazie anche ad un contatto sempre più esteso con le culture orientali. Spesso però non arrivano i benefici promessi e molti rimedi vengono abbandonati lasciando spazio a  presidi di più immediata efficacia ma anche, spesso, di maggiore tossicità.
In realtà dalle tradizioni di cura dovremmo mediare non solo “principi attivi” ma anche una “lettura” differente delle sostanze terapeutiche derivate dalle piante. Le erbe, come ricorda un’antica formula indiana, hanno infatti mente e un corpo.
Erbe, Secondo Natura, dicembre 1986


[1] “In Oriente è tradizione di cura ciò che risulta identificabile come dato di esperienza trasmesso da generazioni (di guaritori) per comunicazione prevalentemente orale, “da bocca a orecchio” come affermano gli stessi esponenti di questi orientamenti di cura.”

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