E se si fosse chiamata SuperNut, oppure Nutosa, o Nutola, o anche
Nusty, come sarebbe potuto succedere, avrebbe avuto lo stesso successo?
Domanda oziosa: la Nutella è Nutella anche perché si chiama così. Se non
avesse avuto nome Nutella, sarebbe stata un’altra cosa. Punto. Quando
Michele Ferrero lo ha scelto, era ovviamente speranzoso, ma certo non si
rendeva conto che il 20 aprile 1964 sarebbe uscito dalle linee della
sua azienda il primo dei barattoli di un prodotto destinato a diventare
uno dei più clamorosi successi industriali di sempre, e non solo nel
settore alimentare. Oggi nel mondo Nutella significa made in Italy
quanto Ferrari. Non a caso le Poste italiane ne celebrano il
cinquantenario emettendo un francobollo in suo onore, accanto ad altri
due che ricordano i 450 anni dalla nascita di Galileo e dalla morte di
Michelangelo.
La Nutella è figlia dell’ostinazione, della tenacia
di Pietro Ferrero di ottenere un cioccolato a basso costo che potesse
diventare la merenda dei bambini: il Giandujot del 1946 è il papà della
Nutella. Il nonno, invece, è il cosiddetto pastone; i Ferrero lo
producevano fin dal 1925 ed era nato per sostituire il pomodoro e il
formaggio che i carpentieri e i muratori torinesi accompagnavano al pane
nella pausa di mezzogiorno.
Se la Nutella ha una data di nascita ben precisa, la
storia del rapporto tra Torino e la cioccolata risale a qualche secolo
prima. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, dopo esser stato al servizio
di Carlo V e di Filippo II, rientra nel 1557 da Madrid a Chambery e tre
anni più tardi trasferisce a Torino la capitale del suo stato. Assieme
alla corte sabauda, giunge al di qua delle Alpi una novità da poco
arrivata dall’America: la cioccolata. Un secolo dopo Torino diventerà un
importante centro di produzione di cioccolato, capace di esportarlo in
mezza Europa. Dalla vicina Svizzera numerosi pasticceri vengono nella
città sabauda per imparare l’arte cioccolatiera, compreso un certo
François-Louis Cailler che nel 1819 rientra a Corsier, sul lago di
Ginevra, dove fonda uno stabilimento (la società Cailler esiste ancor
oggi) e mette a punto un composto morbido che gli permette di ottenere
per primo un prodotto destinato a cambiare la storia del cacao: la
tavoletta di cioccolato.
Nel frattempo l’Europa, e l’Italia, sperimentano il
blocco commerciale imposto dalla Gran Bretagna al continente controllato
da Napoleone. Il cacao non arriva quasi più, quel poco che c’è si trova
a prezzi da gioielleria: i cioccolatieri sono costretti a spremersi le
meningi per non chiudere. Quelli di Torino cominciano a guardarsi
attorno. Non tanto lontano, sulle colline delle Langhe, si raccolgono
quintali di nocciole di cui nessuno sa bene cosa fare. Non è che si
possa sostituire, almeno in parte, il cacao con le nocciole? Sì che si
può. All’inizio questa specie di cioccolato di guerra si produce con
nocciole a pezzetti, finché a Michele Prochet nel 1852 non viene l’idea
di mescolare al cacao le nocciole tostate ridotte in polvere finissima.
Il nuovo cioccolato/nocciolato viene lanciato sul mercato durante il
Carnevale del 1865 distribuito – oggi i pubblicitari direbbero
«testimonial d’eccezione» – ai torinesi dalla più celebre maschera della
città: Gianduja. Così nasce il gianduiotto e anche a questo prodotto va
ascritto un record: quello di diventare il primo cioccolatino
confezionato singolarmente (in precedenza i cioccolatini venivano
tagliati a mano da un pezzo di cioccolato più grande). Nel 1878 la
Prochet si fonde con la Caffarel, tuttora uno dei più importanti
produttori di gianduiotti.
Pietro Ferrero nasce nel 1898 a Farigliano, un paesino piemontese
della provincia di Cuneo. Sarà lui a fondare, nella cittadina di Alba,
la Ferrero, oggi il terzo gruppo dolciario del mondo, dopo Mars e
Nestlé, un colosso da quasi 8 mila miliardi di euro di fatturato, 15
stabilimenti produttivi e 22 mila dipendenti in tutto il mondo. Sarà lui
a inventarsi con caparbietà galileiana – ovvero provando e riprovando –
i prodotti che poi consentiranno di dare vita alla Nutella, anche se
non la vedrà mai di persona perché morirà d’infarto nel 1949 (e una
morte prematura per infarto coglierà anche suo nipote Pietro, nel 2011:
per due volte la Ferrero viene privata nello stesso modo di un capo di
nome Pietro). Si presume che la Nutella conti da sola circa la metà
della produzione Ferrero, ma sono dati difficilissimi da acquisire,
questi, perché una caratteristica dell’azienda piemontese è quella di
mantenere una segretezza degna dei tempi della guerra fredda. Michele
Ferrero, l’attuale presidente, nato nel 1925, nella sua lunga esistenza
non ha mai concesso un’intervista, salvo una, pubblicata nel 1967 in un
libro, e nemmeno firmata, nel miglior stile Ferrero. Peccato, perché
quel giornalista anonimo probabilmente non lo sapeva, ma aveva fatto uno
scoop non da poco, facendo parlare l’uomo che non dichiara mai.
Michele così ricorda papà Ferrero: «mi spedì ad Alessandria
con un camioncino. Avevo venti chili di cioccolato e sei pneumatici di
scorta. Allora bucare era facile, le gomme erano sempre logore. La
“missione” andò benissimo: non feci fatica a vendere e incassai le prime
mille lire della mia vita. Poi passai ad Aosta e da lì a Genova. Quando
cominciai a divertirmi – dico divertirmi perché vendere non era davvero
faticoso – mio padre mi richiamò in fabbrica. Da noi c’era sempre più
lavoro che braccia per lavorare. Anch’io ero necessario.»
Oggi è l’uomo più ricco d’Italia (qualche anno fa era stato scalzato
da Silvio Berlusconi, ma poi si è ripreso il primato) e il 25° al
mondo, secondo la classifica stilata dal periodico americano Forbes. Nei
confronti della Ferrero vale la definizione che il premier britannico
Winston Churchill coniò nel 1939 per l’Unione sovietica: «Un indovinello
avvolto in un mistero dentro un enigma» dove l’indovinello è costituito
da ciò che realmente la Nutella contenga, l’enigma sta nel perché una
cioccolata in scatola abbia avuto più successo nel conquistare il mondo
delle portaerei americane, e il mistero è quello che la Ferrero mantiene
attorno al suo prodotto (chi conosce gli ingredienti esatti della
Nutella non può, per contratto, abbandonare la provincia di Cuneo).
E così come esistevano i cremlinologi che per capire i cambiamenti
interni dell’Urss studiavano le posizioni dei leader sovietici durante
le parate celebrative della Rivoluzione d’ottobre, così oggi ci sono
attenti osservatori che monitorano ogni mossa dell’azienda di Alba. La
massima autorità dell’odierna nutellologia è un giornalista, Gigi
Padovani, che ha a lungo lavorato per il quotidiano di Torino, La
Stampa. È riuscito a farsi ammettere nelle segrete stanze del Cremlino
di Alba. La notizia è che ne è pure uscito, e poi ne ha potuto scrivere.
Le righe che state leggendo hanno come fonte principale i suoi libri. E
non potrebbe essere altrimenti.
Pietro Ferrero tra le due guerra va a Torino, dove apre una pasticceria.
Negli anni Venti il suo prodotto di punta è il “pastone”, un cioccolato
economico da mettere nel pane che sfrutta la voglia di dolce degli
operai delle industrie torinesi. Il cioccolato, in Italia, viene a lungo
considerato – e in parte lo è ancora – come un cibo peccaminoso. In un
paese cattolico dove i piaceri sono stati per molto tempo interdetti, il
consumo di cacao resta legato al senso di colpa (l’Italia, con meno di
tre chili a testa è soltanto al quindicesimo posto in Europa per consumo
di cioccolato; al primo c’è la Svizzera, con undici chili per abitante
ogni anno). Inoltre il dolce costituisce un premio: anche ai nostri
giorni si danno ai bambini caramelle per gratificarli. L’idea di Ferrero
era che se fosse riuscito a fornire un prodotto dolce a basso prezzo,
gli operai lo avrebbero preferito alle imbottiture salate per i loro
panini. La traduzione pratica di questa idea, ovvero il “pastone”,
funziona e, se ci si pensa, ancor oggi, a quasi novant’anni di distanza,
la Nutella è un cioccolato che si mangia sul pane.
Il negozio di Torino, tuttavia, viene liquidato nel 1940,
dopo i primi bombardamenti che colpiscono la città, e Ferrero due anni
più tardi apre un laboratorio ad Alba, cittadina delle Langhe, in
provincia di Cuneo, nota anche per il barolo e il tartufo.
Qui Pietro Ferrero si mette al lavoro per ottenere un prodotto
in grado di essere usato nelle merende dei bambini. I più piccoli sono
il suo obiettivo: ci saranno sempre bambini a cui dare la merenda,
quindi se si fosse riusciti a confezionarne una adatta, il successo
commerciale sarebbe stato garantito. Durante la guerra il cacao costa
carissimo, lo zucchero è difficile da trovare, l’unica cosa che non
manca sono le nocciole. Anzi, la tonda gentile delle Langhe, la varietà
locale, negli anni duri del conflitto serve per produrre olio, visto che
dalla Liguria non arriva quello d’oliva, mentre i gusci svolgono
magnificamente il loro dovere, qualora vengano bruciati nelle stufe. La
maggior parte delle nocciole, tuttavia, è accumulata nei magazzini: era
stato stabilito un prezzo imposto e nessuno le coltiva più. Ferrero
compra tutte le nocciole che trova, esaurisce le scorte, incita i
contadini a rimettere in produzione i noccioleti abbandonati e a
piantarne di nuovi.
In ogni caso il prodotto ricavato con quelle nocciole è buono nel gusto, ma difficilmente utilizzabile per farne una merenda: è troppo duro. Bisogna trovare il modo di ammorbidirlo.
Pietro Ferrero non è certo tipo da arrendersi, rimane giorni, mesi anni,
a rimestare nel suo laboratorio, sempre con un camice bianco indossato
sopra pantaloni e gilet, tanto che in paese lo chiamano «lo scienziato».
E, come si sa, non ci vuol molto perché accanto al sostantivo
scienziato si appiccichi l’aggettivo pazzo. Invece a Ferrero arride il
successo: nell’autunno 1945, o all’inizio del 1946 – la guerra è finita
da pochi mesi – ritrova su uno scaffale un dimenticato barattolo di
burro di cacao. Lo aggiunge all’impasto e… eureka (ho trovato) avrebbe
detto Archimede.
Eccola là, una pasta bella morbida, che si può fare a fette,
che sa di cioccolato, ma soprattutto, che costa pochissimo. Nell’Italia
stremata dalla guerra nessuno ha soldi da buttar via in dolcezze e
voluttà. Gli ingredienti sono più o meno quelli odierni: zucchero,
nocciole, grassi vegetali e cacao.Per Alba poi, è una vera boccata
d’ossigeno: la cittadina aveva conosciuto la durezza dei combattimenti,
era stata repubblica partigiana per ventitré giorni, tra il 10 ottobre e
il 2 novembre 1944, e quando i fascisti tornano in forze, la
repressione è durissima. Finita la guerra, l’unica possibilità di
trovare lavoro è emigrare. Quindi, la voce che un laboratorio dolciario
cerca operai, quattro-cinque, per il momento, costituisce il segnale che
qualcosa sta davvero cambiando.
Trascorre ancora qualche mese e il prodotto entra in commercio.
Il nome? Va benissimo quello del cioccolato con le nocciole; anzi,
visto che c’è, Ferrero fa disegnare sulla carta della confezione la
faccia sorridente di Gianduja che abbraccia un bambino. Il Giandujot, o
Pasta gianduja, arriva nei negozi nel 1946 e costa 4-5 volte meno del
cioccolato tradizionale; nocciolato è la scritta sulla confezione. Si
tratta di una specie di marmellata solida in pani avvolti nella stagnola
che si vende a peso.«Era il prodotto giusto, al prezzo giusto, al
momento giusto», ricorderà, anni dopo, Piera Cillario, moglie di Pietro.
Come Ferrero aveva previsto, il Giandujot va subito fortissimo.
Le prime forniture spariscono in un battibaleno. Il problema, ora, è
tener dietro alle richieste sempre più pressanti. Poco tempo dopo, monsù
Pietro, come in piemontese veniva chiamato, ha pure un’ulteriore idea:
distribuire il prodotto in confezioni monodose. Nasce così il cremino,
un cioccolatino popolare ancora ai nostri giorni. Una ex dipendente, tra
i primissimi assunti, ricorda così i Ferrero: «Non erano ricchi, hanno
avuto la costanza di non mollare mai.»
Ora però bisogna organizzare le vendite. A quello ci pensa il fratello di Pietro,
Giovanni. Tanto il primo è schivo e riservato, tanto il secondo è
vulcanico e gioviale. Salta nella sua automobilina (le automobilone, al
tempo, quasi non esistevano) e va in giro prima per il Piemonte, e poi
via via sempre più in là, a vendere il suo prodotto. Una volta a Milano,
quando un grossista arriva in ritardo a un appuntamento e si ritrova a
mani vuote perché nel frattempo i passanti, attratti dal delizioso
profumino del Giandujot, gli hanno già svuotato l’auto, a Giovanni
Ferrero viene un’idea: vendere direttamente, saltando i grossisti.
Comincia con due furgoni aziendali che via via crescono: gli automezzi
che girano per l’Italia nel 1947 sono 12, 804 nel 1955, 1642 nel 1960,
nel 1966, dopo la nascita della Nutella, la Ferrero dispone di oltre
duemila veicoli.Il che permette a una pubblicazione interna di affermare
che «della fine degli anni Sessanta, che il parco automobilistico
dell’azienda era inferiore solo a quello dell’esercito.»
I furgoni passano per i negozi prima una volta ogni due settimane,
poi una volta alla settimana; i dettaglianti non devono gestire alcun
ordine: quel che serve viene consegnato al momento. Il furgone-treno per
bambini, un veicolo lungo ben undici metri, un’attrazione che quando
arriva manda in visibilio i ragazzini di tutta Italia, fa tappa persino a
Venezia, in piazza San Marco.E c’è pure il recordman del volante:
Giuseppe Tasso, classe 1908, reduce di due guerre, dal 1946 al 1966 si
sciroppa la bellezza di due milioni di chilometri, neanche fosse un
pilota d’aereo.
La fabbrica di Alba della Ferrero si ingrandisce sempre di più,
ma rimane con i piedi ben piantati per terra. Gli operai non devono
trasferirsi e andare a vivere vicino agli stabilimenti perché l’azienda
organizza un servizio di autobus per andare a prenderli e riportarli
indietro. Gli operai, pur assunti, possono rimanere a casa qualche mese
per lavorare i campi; si crea così una curiosa figura di
operaio-contadino già conosciuta tra i lavoratori di altre regioni,
sopratutto tra i metalmeccanici che non rinunciano a coltivare la
propria terra. A quelli che erano stati ribattezzati metal-mezzadri, si
affiancano nel Cuneese i dolciar-mezzadri. Alba dà i natali al
romanziere Beppe Fenoglio, che descrive la Ferrero in un romanzo, La
paga del sabato, uscito postumo, nel 1969: «C’era già più di cento
operai e operaie, in qualunque direzione guardassero, sembravano tutti
rivolti verso il grande portone metallico della fabbrica, come
calamitati.»Questa generale soddisfazione degli operai verso i datori di
lavoro fa sì che la conflittualità sindacale alla Ferrero sia
bassissima: il primo sciopero che si ricordi è del 1959, mentre nel 1971
– erano anni caldissimi, quelli – si registra uno sciopero con
tafferugli e rinvio a giudizio di 42 dipendenti attivisti
sindacali.Dopodiché si è scesi quasi a zero, anzi gli operai si
presentano in massa per rimettere un sesto l’azienda sommersa da una
rovinosa alluvione del fiume Tanaro, nel 1994. Intanto, la produzione di
nocciole delle Langhe ovviamente non basta più produrre quantità
crescenti di Nutella, la Ferrero le importa soprattutto dalla Turchia,
dove organizza anche proprie piantagioni.
Ora torniamo al Giandujot: stiamo parlando di una pasta di nocciole al cioccolato,
venduta in pani, e da tagliare a fette. Per renderla spalmabile, manca
un ulteriore passo, ma non sarà Pietro, morto il 2 marzo 1949, a
compierlo. Molto probabilmente l’artefice è l’attuale patriarca,
Michele, che all’epoca ha 24 anni. In ogni caso in quell’estate del
1949, evidentemente molto calda, succede una cosa che avrebbe fatto
disperare imprenditori meno capaci dei Ferrero: i pani di Giandujot si
sciolgono per via della calura estiva. Qualcuno racconta che i
dettaglianti, spinti dal genio della fantasia italica, si siano messi a
vendere il Giandujot come una pasta spalmabile. Qualcun altro afferma
che la pasta di nocciole e cioccolato si sia sciolta negli stabilimenti
aziendali e che l’idea sia venuta lì dentro. Sia come sia, la Ferrero
ritocca la formula: la pasta viena resa «più morbida, cremosa e subito
spalmabile.»
A questo punto risulta molto simile all’attuale Nutella
e viene venduta in bicchieri o barattoli di vetro. La chiamano
Supercrema e quel che ancora le manca è un nome capace di farla
diventare un mito. In ogni caso ha un enorme successo: i bambini adorano
far merenda con una fetta di pane spalmata di crema al cioccolato, i
genitori non si oppongono: è buona e costa poco. E sanno anche che
quando danno ai loro figli una tavoletta di cioccolato e del pane,
spesso il pane finisce per essere buttato via di nascosto e i ragazzini
si mangiano soltanto il cioccolato. In questo modo il pane viene
inscindibilmente legato al cioccolato. A sud di Napoli, si registra
l’ennesima prova di fantasia imprenditoriale, i rivenditori organizzano
la spalmata: i bambini arrivano in negozio con una fetta di pane in una
mano e nell’altra cinque lire per una spalmata leggera e dieci per una
più generosa. In tanti entrano così in contatto per la prima volta con
la crema alla cioccolata e se poi sboccerà l’amore, continueranno pure
gli acquisti.
Il segreto di quella spalmabilità sta negli oli vegetali.
Se leggete gli ingredienti nell’etichetta, vedrete che non c’è il burro
si cocco, componente fondamentale del Giandujot, bensì una non meglio
precisata miscela di oli vegetali. Lì sta tutto: la Nutella si può
spalmare grazie al cocktail di oli vegetali – “nx” in gergo aziendale –
presente nell’amalgama che lo mantiene morbido. È il segreto meglio
custodito della Ferrero: sono in pochissimi a conoscerne la formula, e
chi ne è partecipe, come detto, deve rimanere a Cuneo. Mantenere il
segreto ha anche un risvolto negativo: gli oli vegetali non hanno una
buona fama, e c’è chi pensa che all’interno di quella dicitura si
nasconda ogni nefandezza. Si sono intentate cause alla Nutella – lo
vedremo – proprio sulla base di quei non precisati oli vegetali. La
composizione della crema, in apparenza, è semplicissima: zucchero,
cacao, oli vegetali, 13 per cento di nocciole.
La Ferrero intanto cresce: nel 1956 apre uno stabilimento in Germania,
ad Allendorf, a 150 chilometri da Francoforte, e quattro anni più tardi
avvia il secondo in Italia, a Pozzuolo Martesana, vicino a Milano.
Intanto, nel 1957, lancia un nuovo prodotto, anch’esso destinato a un
luminoso destino: il Mon chéri, un cioccolatino che racchiude
all’interno una ciliegia al liquore che diventerà il più venduto della
Germania federale: negli anni Sessanta, dieci all’anno per ogni tedesco,
lattanti e centenari compresi.Nel 1957 muore Giovanni, pure lui
d’infarto, e il timone aziendale passa interamente in mano a Michele che
lo terrà fino al 1997, quando gli subentreranno i figli (ma ancora oggi
Michele Ferrero dice la sua da Montecarlo, dove risiede, e dove
l’azienda ha aperto un ufficio).
La Ferrero intanto naviga col vento in poppa, ma
quel nome…, quel nome… Giandujot risulta ostico in Italia, figuriamoci
all’estero; Supercrema è troppo lungo e non identifica il prodotto
(potrebbe essere una crema di qualsiasi cosa). Inoltre, nel 1962, il
parlamento italiano approva una legge che viene interpretata come un
divieto di apporre prefissi accrescitivi ai nomi: niente più super,
ultra, stra e poi qualcosa. La Supercrema ci ricade in pieno. Le spinte a
trovare un nome più spendibile sul mercato arrivano soprattutto dalla
filiale tedesca, ma nel quartier generale di Alba sono d’accordo e
cominciano a spremersi le meningi. Le proposte si rincorrono, come detto
all’inizio, ma alla fine sarà Michele Ferrero a scegliere.
Nutella tra i papabili doveva già esserci: il nome
viene depositato il 10 ottobre 1963.Funziona: nut in inglese vuol dire
noce e lo rende adatto al mercato internazionale, -ella in italiano è un
diminutivo femminile e i diminutivi infondono sensazioni positive, come
tenerezza, affetto, dolcezza. Inoltre è facile da pronunciare un po’
ovunque. Nessuno lo dice, ma il fatto di richiamare la mozzarella, ben
conosciuta e identificata con un’eccellenza italiana, potrebbe aver
giocato un suo ruolo. Quando la decisione è presa, viene brevettato un
po’ tutto: l’accoppiata Nutella-Ferrero, la fetta di pane con la crema
spalmata e il coltello, il barattolo dalla forma tondeggiante e
allungata (ne parleremo, le confezioni sono inscindibili dal successo
della Nutella).
Il 1964 per l’Italia è un anno particolare: si
completa l’autostrada del Sole, che collega Milano a Napoli, viene
aperta la linea due della metropolitana di Milano, Federico Fellini
vince l’oscar con Otto e mezzo, Aldo Moro chiama i socialisti al governo
e vara il centro sinistra. L’Italia si ritrova rinnovata e più ricca e
la Nutella entra a pieno titolo tra i prodotti che segnano gli anni del
boom.
Il 20 aprile di quel magico anno esce dalle linee di
produzione della Ferrero il primo barattolo di Nutella. È destinato a
cambiare il modo di concepire la merenda, e il mondo del cioccolato non
sarà più quello di prima. Ferrero crea il mercato delle creme da
spalmare in Italia, ma pure in Germania e Francia, dove non esisteva
nulla del genere. Ora la Nutella è la lepre che tutti devono inseguire.
Al successo della crema di nocciola e cacao made in
Alba concorrono un mucchio di fattori. La confezione, innanzi tutto. La
Nutella viene venduta all’interno di bicchieri di vetro che, raccolti e
messi assieme, finiscono per formare un servizio. Alcuni sono decorati
con motivi geometrici, altri con personaggi dei fumetti, ancor oggi
risultano ampiamente presenti tra gli oggetti scambiati dai
collezionisti su eBay, il sito di aste online. Il bicchiere allevia il
senso di colpa dei genitori che comprano sì una merenda al cioccolato ai
bambini, ma alla fine resta qualcosa, un oggetto utile, un contenente
che permette di giustificare alla propria coscienza l’acquisto del
contenuto, di espiare il peccato di gola commesso. Il bicchiere della
Nutella è il cavallo di Troia che fa entrare nelle case degli italiani
un alimento, il cioccolato, che veniva tenuto a rispettosa distanza.
Parafrasando Marshall McLuhan, sociologo canadese e studioso della
comunicazione, la Nutella è il messaggio, il barattolo il medium.
Chi è nato in Italia negli anni Sessanta del Novecento ricorda
i bicchieri della Nutella che occhieggiano dai pensili della cucina,
usati per dar da bere ai bambini assetati, in quanto più sacrificabili
rispetto al servizio buono di cristallo, tenuto gelosamente sotto chiave
nella credenza della sala da pranzo. Il barattolo più grande,
soprannominato Pelikan nel gergo aziendale perché assomiglia vagamente
alla boccetta d’inchiostro, è anche questo frutto di un’intuizione
geniale: l’apertura tonda con il coperchio a vite risulta familiare come
quella di un qualsiasi altro barattolo, ma più in basso assume una
forma allungata, in modo da facilitare la presa al momento dell’apertura
e da essere sistemato con meno spazi morti sugli scaffali dei negozi.
Ulteriore invenzione sono le confezioni monodose, anch’esse concepite
negli anni Sessanta: tre vaschettine separate da 30 grammi l’una,
vendute assieme, ognuna sufficiente a spalmare un panino.
Anche in questo caso la tradizione non viene dal nulla:
le cronache aziendali ricordano che Michele, aveva insistito con il
padre, che non voleva lasciarlo partire, per andare in Germania a
comprare una macchina per confezionare i formaggini. Dopo le opportune
modifiche, si era rivelata adattissima a incartare nella stagnola il
Giandujot. Uscivano pani da un chilo, rettangolari, che si potevano
affettare come fossero salame o formaggio.La Supercrema, invece, era
venduta dentro pentoline o casette giocattolo per i bambini. Par di
sentire gli strilli e i «mamma mi compri», «papà lo voglio», con i figli
accontentati perché alla fine rimaneva loro in mano qualcosa con cui
giocare.
L’altra grande, fondamentale, intuizione che ha fatto della Nutella
la crema spalmabile leader nel mondo e della Ferrero un colosso
industriale, è stato l’uso della pubblicità. L’azienda ha da subito
intuito la potenza della televisione per vendere prodotti di massa e per
anni si è ritrovata tra i maggiori investitori pubblicitari della tv
italiana. Ha creato testimonial indelebili, come il cartone animato di
Jo Condor, in onda tra il 1971 e il 1976 – ancor oggi citato da chi ha
tra i 40 e i 50 anni – ispirato da un film americano in cui Spencer
Tracy faceva il pilota.
In Germania la Ferrero ha avuto come testimonial
l’ex campione di tennis Boris Becker, protagonista involontario di una
disputa con i genitori tedeschi. In uno spot mandato in onda nel 1996 si
vedeva lo sportivo spalmarsi una fetta di pane con la Nutella, e poi
cacciarsi allegramente il coltello in bocca. Apriti cielo: ribellione
generale: «Noi abbiamo sempre insegnato ai nostri figli a non mettersi
il coltello in bocca, e voi fate vedere il gesto compiuto da un
testimone che amano con un prodotto che adorano?» La Ferrero compie una
rapida ritirata strategica e negli spot successivi si vede il tennista
infilare il dito nel barattolo.
La Nutella è un prodotto con forte resistenza al consumo e all’acquisto,
come direbbero gli esperti di marketing. Finisce il barattolo? Non ne
compro subito un altro perché che finirebbe presto pure quello. E poi mi
vengono i brufoli e magari pure ingrasso. Allora aspetto. Quindi la
pubblicità è fondamentale per mantenere alti i livelli di vendite.
Una merenda così di culto non può che diventare oggetto di culto.
E infatti ci pensa Nanni Moretti a santificarla. Il regista, nel suo
film Bianca, (1984) si abbuffa di notte da un barattolone di Nutella
alto quasi un metro.Qualche anno dopo la crema spalmabile anima un
vivace dibattito tra uno scrittore, padovano e molto di sinistra,
Ferdinando Camon, e un pupazzo, televisivo e un po’ di destra, il
Gabibbo, in quegli anni un maître à penser della cultura italiana. Il
pupazzo aveva scandalizzato lo scrittore inghiottendo libri attraverso
la sua amplissima bocca, durante una trasmissione tv. Camon si era
lamentato nell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa accusando il
Gabibbo di ingollare libri come fossero Nutella. Al che il pupazzo –
gosth writer il suo creatore, Antonio Ricci – gli replica dalle medesime
colonne il 13 marzo 1993 con una frase destinata a fare epoca: «C’è più
cultura in un vasetto di Nutella che nell’80 per cento dei libri.» Il
bello è che, qualora si consideri il lavoro creativo e di ricerca che
sta alle spalle di un barattolo di crema di nocciole e cacao e si pensi a
quante insulsaggini finiscano indegnamente sugli scaffali delle
librerie, aveva ragione il Gabibbo. Magari l’80 per cento è esagerato,
ma se qualcuno dei 150 libri che ogni giorno escono in Italia non
raggiungesse la tipografia, senza dubbio almeno le foreste ne
beneficerebbero. Tra i tifosi sfegatati della crema spalmabile vanno
senz’altro annoverati il calciatore Francesco Totti e l’olimpionica di
fondo Manuela Di Centa. Totti, capitano della Roma, nel 2004 ha
dichiarato: «Il mio doping? La Nutella» e due anni dopo, svegliandosi da
un intervento chirurgico per la riduzione di una frattura, ha chiesto
una sola cosa: un barattolo di Nutella. Invece la Di Centa, due medaglie
d’oro a Lillehammer 1994, viene derubata mentre nel 2003 partecipa in
Nepal a una spedizione sull’Everest, tornata al campo base scopre che le
mancano varie cose, tra cui, dichiara, «il bene più prezioso, i
barattoli di Nutella.»
Sempre nel 1993 esce un librino scritto in un esilarante latino maccheronico.
Nutella Nutellae, di Riccardo Cassini, dopo varie edizioni uno dei
maggiori successi dell’editoria italiana: un milione e mezzo di copie in
sei anni. L’attacco fa il verso al De bello gallico, di Giulio Cesare.
«Nutella omnia divisa est in partes tres» precisando che una parte sono
le vaschette monodose, la seconda i bicchieri di vetro e la terza i
barattoli grandi («Nutella in magno barattolo», ma ancora meglio se
«magno Nutella in barattolo»).Lo scritto diventa poi un monologo che
Cassini recita in tutta Italia strappando vivaci applausi.
Anche la rivista cult della sinistra intellettuale americana,
The New Yorker, se ne occupa. «Nutella, uno dei grandi cibi spazzatura
del mondo e un alimento tanto fresco di fabbrica quanto una nuova Fiat.
Definire la Nutella – pronuncia Noo-tella – come una crema di cioccolato
e nocciole in un vasetto è come dire che il David di Michelangelo sia
un grande blocco di marmo scolpito. Come tutte le creazioni
dell’ingegno, la Nutella possiede uno spirito inanimato che trascende i
suoi componenti fisici. Vergognosamente dolce, ma non troppo, più grassa
del burro di arachidi, ma con la stessa proprietà curiosamente sexy di
incollare insieme le mandibole, con un intenso sapore di cioccolata, ma
con una morbida dolcezza che richiama bisogni regressivi, la Nutella è
fatta per essere spalmata sul pane, ma più sovente finisce per essere
ingollata a cucchiaiate direttamente dal vasetto. […] Sebbene la Nutella
venga venduta come una merenda per bambini, tutti sanno che contiene
più zuccheri e grasso che un’oncia di Oprah Winfrey su una coppa di
gelato.»
Nella stagione teatrale 1994/’95 un celebre cantautore,
Giorgio Gaber, lancia una canzone, Destra-sinistra, che dà il via a un
dibattito ancora attuale. La Nutella è di sinistra? «Se la cioccolata
svizzera è di destra,/ la Nutella è ancora di sinistra.» Nel 1996 al
Carrousel du Louvre, a Parigi, nella mostra Génération Nutella artisti,
attori, poeti dedicano celebrano i trent’anni della crema spalmabile in
Francia.Nel 2000 arriva l’incoronazione: nella mostra a Padova Cento
anni di design italiano, «accanto al Cubo (televisore di Mario Bellini),
alla Valentine di Olivetti e a un 45 giri dei Beatles c’era anche lei:
la Nutella.»
Intanto nel 2001 debutta la prima Nutelleria, a Bologna
(ne seguiranno una a Genova e un’alta a Francoforte), dove tutti i
piatti offerti sono a base di Nutella: piadine, crêpes, croissant; una
formula di fast food dolce che però la Ferrero non ha ritenuto di
allargare.
Se si misurasse il successo di un prodotto in base alle imitazioni, be’ la Nutella è un successone:
straimitata ovunque nel mondo, sebbene mai niente sia riuscito davvero a
farle ombra. La prima imitazione non era nemmeno tale, si trattava più
che altro di un concorrente temibilissimo. Protagonista il solito veneto
“fasso tuto mi” (faccio tutto io) che ha fatto pure il favore di
eliminarsi da solo. Vittorio Sorgato, questo il suo nome, ad Abbazia di
Badia Polesine, in provincia di Rovigo, aveva messo in piedi un’azienda
che produceva un surrogato di cioccolato bicolore, marrone e beige, che
era arrivata ad avere cento operai. Nel 1948 possedeva trenta camioncini
che mandava in giro per l’Italia a distribuire il suo prodotto. Ma poi
«qualche affare sbagliato» (è lui stesso a dirlo) e va tutto gambe
all’aria.
Oggi il maggior concorrente italiano è la Nutkao di Canove di Govone,
un paese in provincia di Cuneo non molto distante da Alba. L’azienda è
stata fondata nel 1982 da Giuseppe Braida, un ex dipendente Ferrero che
si è messo in proprio. Nel 2012 aveva 160 addetti ed esportava il 45 per
cento della produzione. Si tratta soprattutto di semilavorati per
industria dolciaria, ovvero di crema di nocciole e cacao usata per le
farciture di biscotti e dolcetti. Quelle crostatine tanto buone che
sembrano farcite con la Nutella, molto probabilmente contengono invece
crema Nutkao, venduta a prezzi inferiori rispetto a quella della
Ferrero. Nutkao sono anche molte creme commercializzate con i marchi
della grande distribuzione, mentre a marchio proprio vende barattolini
monodose per fare merenda.
Un altro concorrente italiano abbastanza agguerrito è la Novi
(45 per cento di nocciole), mentre un vero e proprio caso è quello
della tedesca Nudossi. Questa crema era un prodotto di punta dalla
Vadossi, una fabbrica di Dresda, nell’allora Ddr. Dopo la caduta del
Muro, nel 1989, la Nudossi sparisce dagli scaffali, come quasi tutto
quello che usciva dalle linee di produzione della defunta Germania Est.
Ma diventa anche uno degli obiettivi privilegiati della cosiddetta
Ostalgie, cioè la nostalgia per i prodotti e il modo di vivere della Ddr
(nel 2003 uscì anche un film Good Bye Lenin, in cui si parlava dei
cetriolini Spreewälder, pure quelli rimpianti con commozione da chi era
stato bambino ai tempi di Erich Honecker, il leader tedesco orientale).
Dal 1999 la Nudossi torna trionfalmente negli scaffali dei supermercati,
questa volta di tutta la Germania, forte anche del fatto di contenere
il 36 per cento di nocciole, contro il 13 per cento della Nutella.
La Ferrero è un’azienda un po’ arcigna, molto attenta che nessuno usi il marchio Nutella, nemmeno se è un innamorato pazzo della crema di cacao e nocciole (e nel mondo i fan sono tantissimi).
Ne sanno qualcosa i ragazzi romani che per primi aprono, a metà 1997,
un sito internet dedicato alla Nutella. Dopo qualche mese, in ottobre, è
costretto a chiudere e sullo schermo dei computer si legge una lettera
dell’ufficio legale della Ferrero: «non si vuole in alcun modo che il
nostro marchio Nutella® sia associato a iniziative di terzi.»
I cani da guardia della Nutella, due anni prima,
avevano già azzannato un celebre vocabolario della lingua italiana, il
Devoto-Oli, che era stato il primo a inserire “nutella” tra le parole
entrate nella lingua di tutti i giorni. «Nome commerciale di una
diffusissima crema a base di nocciole e cioccolato» era scritto
nell’edizione dell’aprile 1995, naturalmente la parola era trattata come
un nome comune di cosa e quindi scritta con l’iniziale minuscola. Non
sia mai! Immediata arriva una lettera dell’ufficio legale della Ferrero
precisando che si tratta invece di un nome commerciale, quindi da
scrivere con la maiuscola. Gian Carlo Oli, curatore del vocabolario,
precisa in un’intervista che anche aspirina è il nome commerciale
dell’acido acetilsalicilico, registrato da una nota ditta farmaceutica
tedesca nel 1899, ma ormai la parola è entrata nell’uso comune. A questo
punto si scatena la bagarre, con i giornali italiani che versano fiumi
d’inchiostro sul diritto alla libera Nutella. Ma la battaglia legale va
avanti e se la aggiudica la Ferrero, così nella successiva edizione del
vocabolario, uscita due mesi dopo, la voce “nutella”, sempre con la
minuscola, viene così modificata: «Nome commerciale di una diffusissima
crema a base di nocciole e cioccolato (marchio reg.).»
In tempi più recenti, invece, i cuori di pietra dei legali della Nutella
si devono essere ammorbiditi perché la Ferrero ha fatto marcia indietro
sul World Nutella Day. Iniziativa, questa, promossa nel 2007 da una fan
del prodotto, una blogger americana di nome Sara Rosso, che dedica
anche alla Nutella una pagina su Facebook e su Twitter, con tanto di
ricette provenienti da tutto il mondo), tipo enchilada di pollo con
salsa messicana alla Nutella o il panino con bacon e Nutella. La Ferrero
nel maggio 2013 ingiunge alla blogger di chiudere il sito e cancellare
il World Nutella Day che si tiene ogni anno il 5 febbraio.Ma rispetto ai
primordi del 1997, quando si poteva oscurare un sito nell’indifferenza
generale, il web ora è cambiato e la Ferrero viene sommersa
dall’indignazione online dei fan arrabbiati che la costringono a
ritornare sui suoi passi, addossando la colpa a una «procedura di
routine» a difesa dei marchi. La pagina www.nutelladay.com continua a
rimanere visibile a l’azienda dirama un comunicato tutto miele: «Un
positivo contatto diretto tra Ferrero e Sara Rosso, owner di una fan
page non ufficiale di Nutella chiamata World Nutella Day, ha chiuso il
caso. Ferrero desidera esprimere a Sara Rosso la sincera gratitudine per
la sua passione per Nutella, gratitudine che estende a tutti i fan del
World Nutella Day.»
Internet rimane un moltiplicatore della fama della Nutella,
per esempio con vendite di prodotto e di oggetti da collezione su eBay.
Attraverso il sito di aste si può tracciare un curioso atlante della
Nutella in alcuni paesi del mondo. Al momento di chiudere questo libro,
il 16 gennaio 2014, il sito eBay più affollato alla voce «Nutella» è
quello italiano, con 2001 oggetti. Seguono Spagna (891), Germania (493),
Francia (471), eBay.com che riflette le vendite negli Stati Uniti e in
tutti i paesi che non hanno un proprio sito (422), Gran Bretagna (238) e
all’ultimo posto eBay Australia, dove pur esiste una fabbrica di
Nutella, con 58 oggetti, tra i quali una foto di inquietanti quadratini
marroncini di «Homemade Nutella Fudge. 200 gr. Toowoomba!»;
evidentemente gli occhiuti legali della Ferrero hanno qualche problema
nel tenere sotto controllo l’Australia.
Ovviamente finire in tribunale è sempre un rischio e
la Ferrero ha pure perso alcuni procedimenti legali. Una sconfitta l’ha
subita in Germania nel 2011, quando è stata costretta, in primo grado, a
cambiare le etichette in seguito a un’iniziativa legale del
Bundesverband der Verbraucherzentralen, cioè l’unione federale delle
associazioni dei consumatori. Secondo il verdetto di un tribunale di
Francoforte, le etichette tedesche erano scritte in modo fuorviante e
non mettevano in rilievo quanti grassi e zucchero fossero contenuti nel
prodotto.Ma la sconfitta più clamorosa è stata quella subita negli Stati
Uniti d’America, a opera di una mamma californiana, di San Diego, dal
cognome illustre, Athena Hohenberg (Sophia Chotek, duchessa di
Hohenberg, era la moglie dell’erede al trono austroungarico, Francesco
Ferdinando, assassinata assieme a lui a Sarajevo, il 28 giugno 1914,
azione che, com’è noto, ha dato il via alla prima guerra mondiale,
cinquant’anni prima che la Nutella nascesse: ulteriore anniversario del
2014).
La signora californiana, mamma di una bambina che
allora aveva quattro anni, nel 2012 dà il via a una class action contro
la Ferrero Usa, dichiarandosi choccata perché l’azienda promuove la
Nutella come «un esempio di colazione equilibrata, gustosa e sana.» Al
contrario, afferma la donna «la Nutella non è né sana, né nutriente, ed è
simile a tanti altri dolci e contiene livelli pericolosi di grassi
saturi.» Secondo Athena Hohenberg gli spot pubblicitari della Nutella
diffusi negli Usa non mettono in rilievo tutti gli elementi nutrizionali
della crema spalmabile, in particolare i grassi. In base a un accordo
extragiudiziale, la Ferrero viene condannata a pagare una forte multa (4
dollari Usa per ogni barattolo venduto tra il 2008 e il 2012, in un
primo tempo si era parlato di 3 milioni di dollari Usa, ma poi la
Ferrero ha precisato che il rimborso riguardava soltanto chi aveva
aderito alla class action) e a modificare alcuni spot pubblicitari.
Sempre la Ferrero sottolinea che la vicenda riguarda soltanto gli Stati
Uniti e la sentenza non ha valore nel resto del mondo. In ogni caso, il
tutto potrebbe apparire un po’ come una rivincita dell’Austria sconfitta
dall’Italia nella Prima guerra mondiale, con una rampolla di una delle
dinastie più illustri della monarchia asburgica che sconfigge in
tribunale la più importante azienda italiana.
La crema di nocciole e cacao è talmente buona da farne una malattia? Non
al punto da diventarne schiavi, sembrerebbe. Annalisa Pistuddi,
psicologa e psicoterapeuta, studiosa della dipendenze, precisa che non
risultano in letteratura episodi di dipendenza da Nutella, mentre la
crema spalmabile è citata spessissimo nei casi di disordini alimentari.
Lo confermano alcuni forum frequentati da utenti affetti da questo tipo
di patologie. «Ero disgustata di me stessa. Avevo appena mangiato 8-9
porzioni di Nutella» dice Ashley, nell’agosto 2011. Nel post «Aiuto. Non
riesco a smettere di mangiare Nutella», nel luglio 2010 l’utente
Stephbabyy1 osserva che deve sempre avere un po’ crema spalmabile nella
dispensa di casa.
La Nutella ha conquistato il mondo. È presente quasi
ovunque e un po’ dappertutto ci sono fabbriche che producono la mitica
crema di nocciole e cioccolato. Ma c’è un paese, sterminato, dove la
Ferrero vorrebbe insediarsi e ancora non c’è riuscita: la Cina, il
mercato da oltre un miliardo di essere umani, un po’ sogno e un po’
incubo di ogni produttore del mondo. Ma per un prodotto nato per essere
spalmato sul pane, la Cina presenta un problema grande come una casa:
non esiste il pane.
(Testo tratto dal libro, Il Genio del Gusto, Garzanti,
Alessandro Marzo Magno, grazie all’editore per la concessione)
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